RDD 25 - intervista Federica Pulvirenti

RDD 2025 – Federica Pulvirenti

Intervista a Federica Pulvirenti, Immunologa clinica

Immagine Dr Federica Pulvirenti

La ricerca scientifica è il processo attraverso il quale l’essere umano indaga la realtà per comprenderne i fenomeni, scoprire leggi naturali, elaborare teorie e sviluppare tecnologie. Si fonda su metodi rigorosi, osservazione sistematica, esperimenti ripetibili e analisi dei risultati ottenuti. Tuttavia, il concetto di ricerca ha radici più profonde e antiche, che affondano nella filosofia, dove assume un significato più ampio e universale.

In senso filosofico, la ricerca è l’espressione del desiderio umano di conoscere, di interrogarsi sul mondo, sull’essere, sulla verità. Da Socrate, che sosteneva che “sapere di non sapere” è il primo passo verso la conoscenza, fino ad Albert Einstein che affermava che “la ricerca della verità è più preziosa del suo possesso”, la ricerca è sempre stata vista come un cammino aperto, mai definitivo. In questa prospettiva, la ricerca non è solo un’attività tecnica o accademica, ma un’attitudine, una tensione interiore verso il sapere.

La ricerca scientifica, pur seguendo regole precise, mantiene questa natura filosofica: parte da domande fondamentali, spesso semplici, ma capaci di aprire nuove prospettive. La scienza moderna, infatti, nasce quando l’uomo decide di non accettare più acriticamente le conoscenze acquisite in passato, ma di mettere tutto in discussione e di affidarsi all’evidenza, all’esperimento, alla verifica. In entrambe le accezioni – filosofica e scientifica – la ricerca è un atto di umiltà e di coraggio: riconoscere ciò che non si sa e avere la determinazione di esplorarlo. È anche un processo senza fine, perché ogni risposta genera nuove domande. In questo senso, la ricerca è il motore del progresso umano, non solo tecnologico, ma anche culturale ed esistenziale.

Il ridurre la ricerca scientifica alla sola sperimentazione clinica è una visione parziale e limitante, sebbene comprensibile: nella quotidianità, il termine “ricerca” è spesso associato a farmaci, cure, ospedali. Tuttavia, la ricerca è molto più vasta: abbraccia fisica, biologia, matematica, ingegneria, psicologia, sociologia, economia, filosofia… in breve, ogni ambito in cui l’uomo cerca di comprendere e migliorare la propria esistenza.

È fondamentale oggi più che mai superare la frammentazione del sapere. Il mondo contemporaneo pone sfide complesse che nessuna disciplina, da sola, può affrontare in modo efficace. È qui che entra in gioco il valore della contaminazione tra i saperi, ovvero il dialogo costruttivo tra discipline diverse.

Ad esempio, parlare di Salute oggi non significa solo assenza di malattia. L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la Salute come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”. Per raggiungerlo, serve la collaborazione tra medicina, psicologia, scienze sociali, urbanistica, economia e persino arte e filosofia. Solo uno sguardo interdisciplinare può cogliere la complessità dell’essere umano e proporre soluzioni integrate e sostenibili. Promuovere questo scambio di saperi non è solo auspicabile, è necessario. Significa ripensare la ricerca non come una somma di specialismi, ma come un ecosistema dinamico in cui le diverse conoscenze si parlano e si arricchiscono a vicenda. In quest’ottica, la ricerca diventa uno strumento potente non solo per curare, ma per costruire una qualità della vita migliore, per tutti

Questa percezione limitata della ricerca come qualcosa di confinato alla medicina o alla sperimentazione clinica è, a mio parere, il risultato di una combinazione di fattori culturali, educativi e comunicativi. 

In primis, è una questione culturale. Viviamo in una società che per lungo tempo ha operato una netta separazione tra cultura umanistica e cultura scientifica, dicotomia che ha portato a vedere la scienza come “tecnica”, distante dall’esperienza quotidiana e dal pensiero critico, mentre le discipline umanistiche sono spesso percepite come astratte o “non utili”. In realtà, il benessere della persona nasce proprio dall’integrazione di corpo, mente, relazioni e ambiente.

Inoltre, molti non hanno la percezione di quanto sia vasto il mondo della ricerca che si svolge al di fuori della medicina clinica. Si ignorano, per esempio, i contributi delle neuroscienze, della psicologia, delle scienze sociali, dell’ingegneria biomedica, della filosofia della scienza o dell’intelligenza artificiale alla salute globale e al miglioramento della qualità della vita.  

In ultimo, è anche una questione di informazione: i media tendono a enfatizzare la ricerca solo quando produce risultati “visibili”, come un nuovo farmaco o un vaccino. C’è poca comunicazione efficace sulla ricerca di base, sui processi lenti ma fondamentali, e sul valore della ricerca interdisciplinare. Inoltre, mancano spesso linguaggi accessibili e coinvolgenti che possano rendere la complessità della ricerca comprensibile al grande pubblico.

In sintesi, è un limite culturale, educativo e comunicativo, che può e deve essere superato con un’azione congiunta di vari attori della società, scuola, università, media, istituzioni e comunità scientifica. Coltivare una consapevolezza più ampia della ricerca significa anche coltivare cittadini più informati, critici e partecipi.

La riflessione della Presidente Carrozza tocca punti fondamentali e condivisibili: l’urgenza di mettere il sapere scientifico al servizio della società, la necessità di valorizzare la multidisciplinarietà e di ripensare i processi organizzativi della ricerca in Italia. La domanda che lei pone, però, è cruciale: siamo davvero pronti a questa trasformazione?

La risposta, onestamente, è: in parte sì, in parte no.

Da una parte nel nostro paese abbiamo un patrimonio di competenze di altissimo livello. I ricercatori italiani sono infatti spesso tra i più citati al mondo, partecipano a progetti europei e internazionali e si distinguono per creatività e resilienza, anche in condizioni non sempre ottimali.

Abbiamo inoltre istituzioni di eccellenza, tra il CNR, le università, gli IRCCS, ma anche imprese e startup, e una crescente consapevolezza dell’importanza della ricerca per affrontare temi globali che i mutamenti sociali e climatici ci impongono.

Cosa ci frena ancora? Burocrazia e rigidità istituzionali: troppi processi sono ancora lenti, farraginosi, non allineati agli standard internazionali. Questo ostacola la collaborazione, la mobilità, la flessibilità. Inoltre, a livello politico e mediatico, la ricerca è spesso vista come un “costo” più che un “investimento strategico”. I finanziamenti sono infatti frammentati, instabili e poco orientati alla progettualità di lungo termine. Questo contribuisce alla precarietà di chi cerca di fare della ricerca il proprio lavoro: i giovani ricercatori spesso non vedono prospettive concrete di carriera in Italia. Mancano percorsi chiari, meritocratici, stabili. In ultimo c’è ancora una scarsa integrazione tra discipline. La multidisciplinarità è ancora più un’intenzione che una prassi strutturata.

In sintesi, le condizioni ci sono, ma vanno coltivate con visione e coraggio. La transizione verso una ricerca realmente integrata, inclusiva, al servizio della società richiede infatti scelte politiche forti, una cultura della collaborazione, e una valorizzazione concreta del capitale umano. Serve un piano strategico nazionale che non solo celebri la ricerca, ma che la metta davvero al centro dello sviluppo sostenibile del Paese.

La sindrome da delezione del cromosoma 22q11.2 è la delezione più frequente nell’uomo. Nonostante la sia stato stimato che interessi circa un bambino nato su quattromila, il ritardo diagnostico resta ancora particolarmente elevato. Ad oggi si stima che solo un paziente su tre con questa sindrome venga diagnosticato nel primo anno di vita.

Vengono identificati con maggiore difficoltà soprattutto i pazienti che non presentano le caratteristiche più riconoscibili, ovvero le cardiopatie congenite troncoconali. Anche i dismorfismi facciali, ovvero alcune caratteristiche peculiari del volto e del corpo degli individui con delezione 22, sono spesso misconosciuti da medici e sanitari. Questo porta i pazienti e i loro familiari ad intraprendere una vera e propria odissea diagnostica. 

È stato stimato che prima di ricevere la diagnosi corretta una persona affetta da questa sindrome effettui in media sette valutazioni cliniche in aree diverse. Una recente indagine condotta su una popolazione adulta affetta da delezione 22 ha rilevato che 3 pazienti su 5 ricevono la diagnosi in età adolescenziale o adulta. Le ragioni di questa difficoltà a riconoscere e diagnosticare questa sindrome sono molteplici. Un primo fattore rilevante è rappresentato dalla variabilità delle manifestazioni cliniche. Si tratta di una sindrome “dai mille volti”, associata ad alti tassi di comorbidità mediche, deficit cognitivi e disturbi neuropsichiatrici. Possono essere infatti interessati diversi organi, tra cui i sistemi cardiovascolare, otorinolaringoiatrico, genitourinario, endocrinologico, neurologico, gastroenterologico e immuno ematologico. Inoltre, la sindrome è associata ad un’elevata prevalenza di disturbi neuropsichiatrici soprattutto disturbi dello spettro schizofrenico, e da disabilità cognitiva.  A complicare il quadro, l’associazione di tali manifestazioni è estremamente variabile: si va da quadri più benigni, caratterizzati dall’assenza di disturbi medici, a quadri complessi con coinvolgimento di più organi e sistemi, con diverse gravità e comorbidità. Tuttavia, l’eterogeneità clinica da sola non basta a spiegare il ritardo diagnostico nella sindrome da delezione 22. 

Recentemente il nostro gruppo ha evidenziato come i pazienti che ricevono la diagnosi più tardivamente non presentano quadri clinici meno complessi o manifestazioni più tardive. In particolare, la percentuale di pazienti che presentavano in anamnesi anomalie del neurosviluppo o del linguaggio, difficoltà scolastiche o la disabilità cognitiva di grado medio o superiore era la stessa tra i pazienti diagnosticati precocemente e quelli diagnosticati più tardivamente. Anche le anomalie cardiache e del palato e i dismorfismi facciali, cioè le caratteristiche più “riconoscibili” della sindrome, pur essendo presenti più frequentemente tra i soggetti diagnosticati precocemente, erano frequentemente osservate anche nei soggetti con diagnosi in età adolescenziale o adulta. Questo dato ci dice che i molteplici specialisti sanitari e gli operatori scolastici che intercettano negli anni i pazienti con delezione 22 hanno difficoltà a mettere insieme i pezzi del puzzle e a sospettare la giusta diagnosi. È un fenomeno sicuramente comune a molte malattie rare. Infatti, per diagnosticare una patologia, bisogna prima conoscerla. In questo contesto, il ruolo delle società scientifiche e delle associazioni nel promuovere la conoscenza delle malattie rare si rivela fondamentale sia a breve che a lungo termine: ciò permette di ridurre i ritardi diagnostici, accelerare l’accesso alle cure e, non meno importante, alleviare il peso mentale ed economico che gravano sulle famiglie coinvolte.

Nonostante la sindrome sia stata descritta ben 60 anni fa e sia geneticamente caratterizzata, i fattori che determinino la variabilità del fenotipo clinico restano in gran parte sconosciuti. Nella sindrome delezione 22 non esiste infatti una correlazione genotipo-fenotipo, cioè non è possibile prevedere dal tipo e dall’estensione del “pezzo” di cromosoma mancante quale saranno le problematiche che il feto o il bambino nato manifesterà nel corso della sua vita.

Capire le basi molecolari della patologia neuro cognitiva e psichiatrica potrà forse nel futuro indicarci non solo chi svilupperà tali sintomi ma anche svelarci possibili bersagli terapeutici per prevenirne la comparsa o limitarne la severità. È questa la sfida del futuro.

Le manifestazioni cliniche della sindrome da delezione 22 sono molto eterogenee sia per gravità sia per gli organi coinvolti. Per questo motivo, bambini, adolescenti e adulti affetti richiedono un approccio multidisciplinare e un metodo che garantisca al paziente una rete di professionisti specializzati, in grado di rispondere ai bisogni che cambiano nel corso delle diverse fasi della vita.

Nel nostro centro, in cui seguiamo più di cento giovani e adulti con delezione 22 provenienti dal centro e dal sud Italia, abbiamo coinvolto diverse figure professionali, per gestire al meglio le comorbidità dei pazienti e per orientare le famiglie a continuare le cure sul territorio. Nell’ambito della patologia dell’adulto, dove i quadri clinici sono in genere stabilizzati, viene principalmente seguito il follow up delle cardiopatie congenite operate, vengono gestite le complicanze endocrinologiche, soprattutto di tipo metabolico, e le manifestazioni neurologiche e psichiatriche. Molti pazienti presentano quadri di obesità, dislipidemia e ipertensione, che vengono rispettivamente gestiti nell’ambito della medicina nutrizionale e della cardiologia. 

Aldel 22 - la mission

Il centro di riferimento per la delezione 22 dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Policlinico Umberto I ha una doppia anima. Creato 15 anni fa dal Prof. Bruno Marino, cardiologo e ricercatore nel campo delle patologie strutturali cardiache e genetiche, il centro si è evoluto nel tempo grazie alla collaborazione di due anime complementari. Da un lato, quella pediatrica, rappresentata da cardiologi esperti in cardiopatie congenite, e dall’altro, quella dell’adulto, con l’immunologo specializzato in immunodeficienze e malattie rare grazie alla disponibilità della Professoressa Isabella Quinti, Immunologa Clinica ed esperta di errori congeniti dell’immunità nell’adulto. Questa integrazione multidisciplinare ha permesso di sviluppare un modello organizzativo efficace, basato sulla collaborazione tra diverse branche specialistiche, entrambe con una forte formazione nelle malattie rare e genetiche.

Nel nostro centro il case manager è l’immunologo clinico, che si avvale della rete delle malattie rare dell’azienda, composta da professionisti di alto livello in varie specializzazioni mediche o chirurgiche tra cui: Paolo Versacci e Carolina Putotto per la cardiologia, Matteo Spaziani per le patologie endocrinologiche, Carlo DI Bonaventura e Adolfo Mazzeo per la Neurologia, Antonio Pizzuti e Luigi Tarani per la genetica, Francesca Yoshie Russo per la patologia Otorinolaringoiatrica e Audiologica, Lorena Martini per l’ortopedia, Cristina Santoro per l’ematologia, e Valentina Pistolesi per la nefrologia. Inoltre, collaboriamo con Isabella Beradelli e Maria Rosaria Cifrodelli del servizio di Psichiatria del Policlinico S. Andrea.

Questo approccio integrato e multidisciplinare rappresenta un esempio immediatamente replicabile laddove sia sviluppata la rete assistenziale delle malattie rare. Tuttavia, l’esperienza puo’ essere ripetuta anche in altre strutture ospedaliere, purché siano presenti alcune figure chiave e una forte volontà di innovare la volontà di mettersi alla prova con le sfide che una sindrome complessa e multiforme come la delezione 22 impone. È infatti certamente auspicabile coinvolgere e formare altri colleghi per diffondere le competenze e replicare l’organigramma in altri centri, migliorando così diagnosi, cura e supporto ai pazienti in tutto il territorio.

Sarebbe auspicabile che il ruolo di coordinatore dei centri di riferimento per la delezione 22 venisse affidato a figure trasversali come il genetista medico, l’internista, l’immunologo clinico, o l’endocrinologo. Il case manager dovrebbe essere affiancato da un pool di specialisti che gestiscono le complicanze più frequenti. Nell’ambito della gestione del paziente il numero degli specialisti dovrebbe includere endocrinologi, cardiologi, nutrizionisti, neurologi e psichiatri.

Come abbiamo visto, il riconoscimento dei segni della sindrome 22 è più immediato nei bambini che presentano cardiopatie congenite o immunodeficienza. Per rendere la diagnosi precoce accessibile a tutti, indipendentemente dal fenotipo clinico, è fondamentale intervenire sulle figure che interagiscono con i bambini nei primi anni di vita, tra cui otorinolaringoiatri, chirurghi plastici, logopedisti, psicologi e operatori scolastici. È importante inoltre formare i pediatri di libera scelta, affinché non solo imparino a riconoscere i segnali della sindrome da delezione 22 e a mettere insieme tutti i pezzi del puzzle, ma più in generale, ad individuare i campanelli d’allarme che rendono necessario avviare il bambino e la famiglia ad una consulenza genetica, compresa la presenza di dismorfismi e l’associazione tra malformazioni di qualsiasi genere, specie se multiple, e anomalie del neurosviluppo.

La ricerca italiana si occupa della delezione 22 sia a livello di ricerca di base, per identificare i meccanismi che impattano sulla comparsa delle manifestazioni, sia come ricerca clinica, principalmente incentrata sugli aspetti neuro cognitivi, cardiologici e immunologici.

Nell’ambito della ricerca di base, il lavoro del Prof. Antonio Baldini dell’Università di Salerno ha evidenziato l’impatto dell’aploinsufficienza (cioè, la perdita di una delle due copie) di TBX1, un gene chiave situato nella regione 22q11.2. Baldini ha dimostrato che TBX1 è fondamentale per il corretto sviluppo di molti tessuti, tra cui cuore, palato, e timo, e la sua perdita contribuisce alle caratteristiche cliniche della sindrome. Recentemente il suo gruppo di ricerca si sta occupando di capire il ruolo dell’aploinsufficienza di Tbx1 nella patogenesi della patologia neurocomportamentale nel topo, ipotizzando un suo ruolo nella comparsa di alterazioni metaboliche a livello cerebrale e identificando strategie per correggerle. 

Il gruppo di ricerca dell’Università La Sapienza di Roma, a cui afferisce il nostro centro di riferimento, sta lavorando per comprendere meglio le caratteristiche cliniche e le strategie terapeutiche della patologia psichiatrica, neurologica e cardiologica dei pazienti con delezione 22. Da un punto di vista immunologico, il gruppo di cui faccio parte è al lavoro per implementare la conoscenza sulla risposta immunitaria alle infezioni e alle vaccinazioni negli adulti con sindrome e per vincere l’esitazione vaccinale in questa popolazione. Non in ultimo, stiamo lavorando per studiare gli elementi che influenzano il ritardo diagnostico e la qualità della vita degli adulti e delle loro famiglie, al fine di identificare aree di intervento e, possibilmente, spunti per migliorare l’assistenza delle persone che vivono con questa condizione.

La ricerca sulla delezione 22 è vivace non solo a livello italiano, ma anche a livello internazionale. Molto si sta facendo per identificare terapie riabilitative e per caratterizzare al meglio i disturbi inizialmente trascurati, come per esempio quelli a carico dell’udito, o alcune difficoltà specifiche in ambito neurologico come i disturbi del movimento o disturbi della memoria. Inoltre, grazie alla sempre maggiore accessibilità di tecniche genetiche avanzate, si sta studiando come fattori genetici aggiuntivi influenzino la variabilità dei fenotipi dei pazienti con delezione 22. Queste informazioni nei prossimi anni ci metteranno probabilmente nella condizione di predire quali pazienti svilupperanno alcune manifestazioni e cosa possiamo fare per migliorare per ridurre il danno e migliorarne la performance nel lungo periodo.

Inoltre, alcuni gruppi sono al lavoro per capire se è possibile correggere anomalie metaboliche cerebrali dei pazienti con delezione 22 agendo già nei primi giorni di vita, con l’obiettivo ambizioso di prevenire la comparsa di anomalie neuro cognitive e quindi cambiare radicalmente la storia naturale di questa condizione.

Costituirebbe sicuramente una svolta esplorare il legame tra la disregolazione immunitaria e la patogenesi delle manifestazioni neuro cognitive e psichiatriche: credo che evidenziare il contributo dell’immunità aprirebbe nuove aree di studio per identificare possibili target terapeutici. 

Le associazioni di pazienti svolgono un ruolo fondamentale nel panorama della ricerca clinica e nell’elaborazione di politiche sanitarie efficaci e inclusive. Queste organizzazioni rappresentano la voce diretta di chi vive quotidianamente con una determinata condizione, offrendo un punto di vista prezioso, in gran parte inaccessibile agli operatori sanitari, e spesso sottovalutato dagli enti di ricerca e dalle istituzioni sanitarie. La loro presenza permette di individuare le reali esigenze dei pazienti, contribuendo a orientare le priorità di ricerca verso aree di maggiore impatto e rilevanza sociale. Inoltre, le associazioni di pazienti facilitano la raccolta di dati e testimonianze che arricchiscono gli studi clinici, rendendoli più rappresentativi e utili per sviluppare terapie più efficaci e personalizzate. Sul fronte delle politiche sanitarie, queste organizzazioni sono strumenti di advocacy, capaci di influenzare le decisioni politiche e di promuovere leggi e programmi di assistenza più equi e mirati. 

La collaborazione tra ricercatori, istituzioni e associazioni di pazienti favorisce un sistema sanitario più trasparente, partecipato e orientato al benessere reale delle persone. In conclusione, le associazioni di pazienti come Aidel22 sono un pilastro imprescindibile per un progresso medico e sociale sostenibile e centrato sull’individuo. Noi ricercatori e clinici siamo a loro disposizione per fornire dati rigorosamente prodotti attraverso il metodo scientifico affinché possano chiedere ed ottenere il meglio delle evidenze disponibili, con il fine ultimo di migliorare la qualità della vita dei pazienti e delle loro famiglie.

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