Intervista a Federica Pulvirenti, Immunologa clinica
Parlare di Ricerca a 360° con l’obiettivo di ribadire che:
per supportare ed intervenire in modo appropriato sulla Qualità di Vita delle Persone con Malattia Rara; per impegnarci ed ambire ad un loro Progetto di Vita è indispensabile avere una visione multidisciplinare: solo così è possibile aspirare ad una Vita socialmente sostenibile.

Nella raccolta delle nostre interviste non poteva mancare il punto di vista della Dr.ssa Federica Pulvirenti per approfondire il binomio: ricerca e malattie rare, con un focus sulla Sindrome da Microdelezione del Cromosoma 22.
Andando oltre la nota definizione della locuzione “ricerca scientifica”, potrebbe darci una sua “personale definizione”? Cosa intende “Lei per Ricerca”!?
La ricerca scientifica è il processo attraverso il quale l’essere umano indaga la realtà per comprenderne i fenomeni, scoprire leggi naturali, elaborare teorie e sviluppare tecnologie. Si fonda su metodi rigorosi, osservazione sistematica, esperimenti ripetibili e analisi dei risultati ottenuti. Tuttavia, il concetto di ricerca ha radici più profonde e antiche, che affondano nella filosofia, dove assume un significato più ampio e universale.
In senso filosofico, la ricerca è l’espressione del desiderio umano di conoscere, di interrogarsi sul mondo, sull’essere, sulla verità. Da Socrate, che sosteneva che “sapere di non sapere” è il primo passo verso la conoscenza, fino ad Albert Einstein che affermava che “la ricerca della verità è più preziosa del suo possesso”, la ricerca è sempre stata vista come un cammino aperto, mai definitivo. In questa prospettiva, la ricerca non è solo un’attività tecnica o accademica, ma un’attitudine, una tensione interiore verso il sapere.
La ricerca scientifica, pur seguendo regole precise, mantiene questa natura filosofica: parte da domande fondamentali, spesso semplici, ma capaci di aprire nuove prospettive. La scienza moderna, infatti, nasce quando l’uomo decide di non accettare più acriticamente le conoscenze acquisite in passato, ma di mettere tutto in discussione e di affidarsi all’evidenza, all’esperimento, alla verifica. In entrambe le accezioni – filosofica e scientifica – la ricerca è un atto di umiltà e di coraggio: riconoscere ciò che non si sa e avere la determinazione di esplorarlo. È anche un processo senza fine, perché ogni risposta genera nuove domande. In questo senso, la ricerca è il motore del progresso umano, non solo tecnologico, ma anche culturale ed esistenziale.
Sovente nel gergo più popolare, conversando al di fuori del contesto scientifico si associa alla ricerca scientifica immediatamente la sperimentazione clinica, lontani dal pensare sia estesa a qualunque ambito della conoscenza e dell’esperienza umana. Si discute molto sull’importanza della contaminazione tra le diverse discipline ed ambiti della ricerca sostenendo che lo scambio dei saperi scientifici può promuovere un concetto ampio di Salute per una Miglior Qualità di Vita.
Quale il suo parere in merito?
Il ridurre la ricerca scientifica alla sola sperimentazione clinica è una visione parziale e limitante, sebbene comprensibile: nella quotidianità, il termine “ricerca” è spesso associato a farmaci, cure, ospedali. Tuttavia, la ricerca è molto più vasta: abbraccia fisica, biologia, matematica, ingegneria, psicologia, sociologia, economia, filosofia… in breve, ogni ambito in cui l’uomo cerca di comprendere e migliorare la propria esistenza.
È fondamentale oggi più che mai superare la frammentazione del sapere. Il mondo contemporaneo pone sfide complesse che nessuna disciplina, da sola, può affrontare in modo efficace. È qui che entra in gioco il valore della contaminazione tra i saperi, ovvero il dialogo costruttivo tra discipline diverse.
Ad esempio, parlare di Salute oggi non significa solo assenza di malattia. L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la Salute come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”. Per raggiungerlo, serve la collaborazione tra medicina, psicologia, scienze sociali, urbanistica, economia e persino arte e filosofia. Solo uno sguardo interdisciplinare può cogliere la complessità dell’essere umano e proporre soluzioni integrate e sostenibili. Promuovere questo scambio di saperi non è solo auspicabile, è necessario. Significa ripensare la ricerca non come una somma di specialismi, ma come un ecosistema dinamico in cui le diverse conoscenze si parlano e si arricchiscono a vicenda. In quest’ottica, la ricerca diventa uno strumento potente non solo per curare, ma per costruire una qualità della vita migliore, per tutti
Tanti sono gli ambiti della Ricerca che in sinergia con la sperimentazione clinica e la medicina possono concorrere al Ben-Essere della Persona sia tra le discipline: umanistiche, scientifiche che STEM ma la percezione è che la collettività non ne abbia piena consapevolezza.
Secondo lei per quale motivo, si inciampa, per così dire, in questo limite?
Questa percezione limitata della ricerca come qualcosa di confinato alla medicina o alla sperimentazione clinica è, a mio parere, il risultato di una combinazione di fattori culturali, educativi e comunicativi.
In primis, è una questione culturale. Viviamo in una società che per lungo tempo ha operato una netta separazione tra cultura umanistica e cultura scientifica, dicotomia che ha portato a vedere la scienza come “tecnica”, distante dall’esperienza quotidiana e dal pensiero critico, mentre le discipline umanistiche sono spesso percepite come astratte o “non utili”. In realtà, il benessere della persona nasce proprio dall’integrazione di corpo, mente, relazioni e ambiente.
Inoltre, molti non hanno la percezione di quanto sia vasto il mondo della ricerca che si svolge al di fuori della medicina clinica. Si ignorano, per esempio, i contributi delle neuroscienze, della psicologia, delle scienze sociali, dell’ingegneria biomedica, della filosofia della scienza o dell’intelligenza artificiale alla salute globale e al miglioramento della qualità della vita.
In ultimo, è anche una questione di informazione: i media tendono a enfatizzare la ricerca solo quando produce risultati “visibili”, come un nuovo farmaco o un vaccino. C’è poca comunicazione efficace sulla ricerca di base, sui processi lenti ma fondamentali, e sul valore della ricerca interdisciplinare. Inoltre, mancano spesso linguaggi accessibili e coinvolgenti che possano rendere la complessità della ricerca comprensibile al grande pubblico.
In sintesi, è un limite culturale, educativo e comunicativo, che può e deve essere superato con un’azione congiunta di vari attori della società, scuola, università, media, istituzioni e comunità scientifica. Coltivare una consapevolezza più ampia della ricerca significa anche coltivare cittadini più informati, critici e partecipi.
Vorrei soffermarmi sul Tema della Ricerca nel nostro paese: patrimonio di competenze al servizio della comunità. Prendo in prestito le parole della Presidente del Cnr Maria Chiara Carrozza (un estratto da un’intervista dello scorso gennaio 2024) per condividere con lei una riflessione più ampia:
“Era, infatti, il 18 novembre 1923 quando il CNR venne istituito con Regio decreto come Ente morale, inizialmente con un ruolo di rappresentanza della comunità scientifica italiana presso l’International Research Council, quindi con la finalità di coordinare e stimolare l’attività nazionale nei differenti settori della ricerca scientifica e delle sue applicazioni tecnologiche… La sfida che ci attende adesso è quella di mettere questo enorme patrimonio di competenze al servizio della società, contribuendo a individuare soluzioni che possano aiutarci ad affrontare i grandi cambiamenti che stiamo vivendo a livello globale, e immaginare un nuovo futuro di sviluppo. Penso a settori strategici anche dal punto di vista economico – la biomedicina, l’agritech, la neurorobotica, la tutela dell’ambiente e della biodiversità, l’Intelligenza Artificiale, l’economia circolare – temi sui quali abbiamo improntato anche le celebrazioni del Centenario…In questo percorso, certamente è necessario affrontare anche delle riforme sul piano interno e organizzativo, ed è in questo senso che va il Piano di rilancio dell’Ente, un documento condiviso con tutta la rete che ci sta portando a “ridisegnare” molti processi. Uno di questi riguarda il fatto di integrare maggiormente le varie aree scientifiche, valorizzando la multidisciplinarietà dell’Ente e la sua interdisciplinarità, promuovendo la libertà della ricerca e sostenendo in maniera mirata i grandi progetti trasversali, sul modello di organizzazioni internazionali come l’European Research Council). Non meno importante è poi la parte sul reclutamento, la crescita e la carriera scientifica: c’è ancora molto da fare per mettere i nostri ricercatori al passo con altre realtà internazionali, ma è un processo che non possiamo affrontare da soli.”
Sicuramente la sfida è individuare soluzioni che possano aiutarci ad affrontare i grandi cambiamenti che stiamo vivendo a livello globale, ed immaginare un nuovo futuro di sviluppo ridisegnando molti processi che mirino, in generale a valorizzare la multidisciplinarietà e la interdisciplinarità. Impossibile non condividere!
Ma ne siamo capaci? Se analizziamo lo stato dell’arte ci sono le condizioni!?
La riflessione della Presidente Carrozza tocca punti fondamentali e condivisibili: l’urgenza di mettere il sapere scientifico al servizio della società, la necessità di valorizzare la multidisciplinarietà e di ripensare i processi organizzativi della ricerca in Italia. La domanda che lei pone, però, è cruciale: siamo davvero pronti a questa trasformazione?
La risposta, onestamente, è: in parte sì, in parte no.
Da una parte nel nostro paese abbiamo un patrimonio di competenze di altissimo livello. I ricercatori italiani sono infatti spesso tra i più citati al mondo, partecipano a progetti europei e internazionali e si distinguono per creatività e resilienza, anche in condizioni non sempre ottimali.
Abbiamo inoltre istituzioni di eccellenza, tra il CNR, le università, gli IRCCS, ma anche imprese e startup, e una crescente consapevolezza dell’importanza della ricerca per affrontare temi globali che i mutamenti sociali e climatici ci impongono.
Cosa ci frena ancora? Burocrazia e rigidità istituzionali: troppi processi sono ancora lenti, farraginosi, non allineati agli standard internazionali. Questo ostacola la collaborazione, la mobilità, la flessibilità. Inoltre, a livello politico e mediatico, la ricerca è spesso vista come un “costo” più che un “investimento strategico”. I finanziamenti sono infatti frammentati, instabili e poco orientati alla progettualità di lungo termine. Questo contribuisce alla precarietà di chi cerca di fare della ricerca il proprio lavoro: i giovani ricercatori spesso non vedono prospettive concrete di carriera in Italia. Mancano percorsi chiari, meritocratici, stabili. In ultimo c’è ancora una scarsa integrazione tra discipline. La multidisciplinarità è ancora più un’intenzione che una prassi strutturata.
In sintesi, le condizioni ci sono, ma vanno coltivate con visione e coraggio. La transizione verso una ricerca realmente integrata, inclusiva, al servizio della società richiede infatti scelte politiche forti, una cultura della collaborazione, e una valorizzazione concreta del capitale umano. Serve un piano strategico nazionale che non solo celebri la ricerca, ma che la metta davvero al centro dello sviluppo sostenibile del Paese.
Se non si ha familiarità con “il mondo dei rari”, spesso si è portati a pensare che sia una realtà molto distante e questo pensiero riguarda anche la ricerca scientifica, approccio che la collettività non ha ad esempio rispetto alla ricerca che riguarda altre patologie, invalidanti ed aggressive ma molto più diffuse e note.
Molti non sanno che la RICERCA sulle MR in parte si sovrappone a quella applicata ad altre malattie più comuni (seppur ovviamente con delle peculiarità); e probabilmente sfugge ai più, che i risultati prodotti dalla RICERCA sono patrimonio comune in quanto le sue applicazioni possono riguardare campi diversi e non solo nello specifico quello delle MR. La non conoscenza alimenta lo scettiscismo ed aumenta la distanza; per fortuna le campagne di sensibilizzazione di questi ultimi anni, molto più capillari, stanno fornendo un grande contributo “per abbattere muri”.
Sindrome da Microdelezione del Cromosoma 22
Si tratta di una sindrome di natura genetica caratterizzata dalla mancanza (delezione) di un piccolo frammento del braccio lungo (q) del cromosoma 22, da qui il nome microdelezione 22q11.2.
È una malattia rara che tuttavia rappresenta la più comune sindrome da microdelezione, che si manifesta nella specie umana, con frequenza approssimativa di 1 ogni 4000 nati vivi. È presente in circa 1 su 68 bambini con cardiopatia congenita, ed è la più comune sindrome associata ad anomalie del palato e ad insufficienza velo-faringea, mentre rappresenta la seconda causa più comune di ritardo dello sviluppo (circa 2.4% degli individui affetti da ritardo dello sviluppo psicomotorio).
Nella maggior parte dei casi, all’incirca per il 90%, la sindrome è causata da una delezione “de novo”, cioè, avviene durante la gestazione e nessuno dei due genitori ne è affetto. Mentre per il 10% dei casi viene ereditata da uno dei due genitori per via autosomica dominante.
L’ampia varietà dei quadri di presentazione e dello spettro fenotipico che la caratterizzano contribuiscono ancora oggi alla sotto diagnosi della sindrome.
Tuttavia, la variabilità dell’espressione clinica e del fenotipo clinico, nelle persone con delezione del cromosoma 22 si manifesta spesso con un aspetto esterno e dei segni clinici riconoscibili e comuni tra loro; a volte però si caratterizza con una sintomatologia clinica differente e più sfumata. Si ritiene dunque che ancora oggi, sia una sindrome sotto diagnosticata. Nonostante un quadro clinico molto variabile e multi-sistemico, vi sono degli aspetti più frequentemente associati alla sindrome stessa, come:
- Ipocalcemia neonatale
- Anomalie cardiache
- Aspetto fenotipico (aspetto/facies)
- Alterazioni immunologiche ed infezioni ricorrenti
- Anomalie del palato con la classica “voce nasale”
- Disturbi dell’alimentazione e anomalie gastrointestinali
- Anomalie Ortopediche
- Anomalie neuropsichiatriche
In virtù del quadro multi-sistemico caratterizzante la sindrome, è necessaria una presa in carico multi-specialistica dell’individuo con la delezione del cromosoma 22 con la collaborazione di differenti figure specialistiche come: pediatra/medico di base, genetista, cardiologo, immunologo, endocrinologo, chirurgo plastico, ortopedico, neurologo, psicologo, psichiatra, logopedista…
Cosa sappiamo della Sindrome da delezione 22q11.2. A differenza di altre malattie rare la ricerca “ci ha restituito” le cause.
Nella maggior parte dei pazienti, la sindrome è causata da una delezione da 3 milioni di coppie di basi (Mb) nella regione cromosomica 22q11.2, affiancata da ripetizioni a ridotto numero di copie. La delezione è causata da una ricombinazione meiotica non allelica durante la spermatogenesi o l’oogenesi. In circa il 15% dei pazienti, la delezione comprende la regione critica 3Mb di Di George e può avere dimensioni variabili. Molte delezioni interessano il gene TBX1, che è coinvolto nello sviluppo del cuore, delle paratiroidi, del timo e della struttura del viso. Si ritiene che la variabilità di espressione del fenotipo 22q11.2 sia correlata a modificatori genetici presenti sull’altro allele 22q11.2 o su altri cromosomi.
Si ritiene ad oggi, sia una sindrome ancora sotto diagnosticata. È corretto?
La sindrome da delezione del cromosoma 22q11.2 è la delezione più frequente nell’uomo. Nonostante la sia stato stimato che interessi circa un bambino nato su quattromila, il ritardo diagnostico resta ancora particolarmente elevato. Ad oggi si stima che solo un paziente su tre con questa sindrome venga diagnosticato nel primo anno di vita.
Vengono identificati con maggiore difficoltà soprattutto i pazienti che non presentano le caratteristiche più riconoscibili, ovvero le cardiopatie congenite troncoconali. Anche i dismorfismi facciali, ovvero alcune caratteristiche peculiari del volto e del corpo degli individui con delezione 22, sono spesso misconosciuti da medici e sanitari. Questo porta i pazienti e i loro familiari ad intraprendere una vera e propria odissea diagnostica.
È stato stimato che prima di ricevere la diagnosi corretta una persona affetta da questa sindrome effettui in media sette valutazioni cliniche in aree diverse. Una recente indagine condotta su una popolazione adulta affetta da delezione 22 ha rilevato che 3 pazienti su 5 ricevono la diagnosi in età adolescenziale o adulta. Le ragioni di questa difficoltà a riconoscere e diagnosticare questa sindrome sono molteplici. Un primo fattore rilevante è rappresentato dalla variabilità delle manifestazioni cliniche. Si tratta di una sindrome “dai mille volti”, associata ad alti tassi di comorbidità mediche, deficit cognitivi e disturbi neuropsichiatrici. Possono essere infatti interessati diversi organi, tra cui i sistemi cardiovascolare, otorinolaringoiatrico, genitourinario, endocrinologico, neurologico, gastroenterologico e immuno ematologico. Inoltre, la sindrome è associata ad un’elevata prevalenza di disturbi neuropsichiatrici soprattutto disturbi dello spettro schizofrenico, e da disabilità cognitiva. A complicare il quadro, l’associazione di tali manifestazioni è estremamente variabile: si va da quadri più benigni, caratterizzati dall’assenza di disturbi medici, a quadri complessi con coinvolgimento di più organi e sistemi, con diverse gravità e comorbidità. Tuttavia, l’eterogeneità clinica da sola non basta a spiegare il ritardo diagnostico nella sindrome da delezione 22.
Recentemente il nostro gruppo ha evidenziato come i pazienti che ricevono la diagnosi più tardivamente non presentano quadri clinici meno complessi o manifestazioni più tardive. In particolare, la percentuale di pazienti che presentavano in anamnesi anomalie del neurosviluppo o del linguaggio, difficoltà scolastiche o la disabilità cognitiva di grado medio o superiore era la stessa tra i pazienti diagnosticati precocemente e quelli diagnosticati più tardivamente. Anche le anomalie cardiache e del palato e i dismorfismi facciali, cioè le caratteristiche più “riconoscibili” della sindrome, pur essendo presenti più frequentemente tra i soggetti diagnosticati precocemente, erano frequentemente osservate anche nei soggetti con diagnosi in età adolescenziale o adulta. Questo dato ci dice che i molteplici specialisti sanitari e gli operatori scolastici che intercettano negli anni i pazienti con delezione 22 hanno difficoltà a mettere insieme i pezzi del puzzle e a sospettare la giusta diagnosi. È un fenomeno sicuramente comune a molte malattie rare. Infatti, per diagnosticare una patologia, bisogna prima conoscerla. In questo contesto, il ruolo delle società scientifiche e delle associazioni nel promuovere la conoscenza delle malattie rare si rivela fondamentale sia a breve che a lungo termine: ciò permette di ridurre i ritardi diagnostici, accelerare l’accesso alle cure e, non meno importante, alleviare il peso mentale ed economico che gravano sulle famiglie coinvolte.
L’eziologia della sindrome è quindi un processo di ricerca in divenire? E nel caso, nuovi dati eziopatogenetici potrebbero essere rilevanti rispetto all’approccio in alcune manifestazioni cliniche?
Nonostante la sindrome sia stata descritta ben 60 anni fa e sia geneticamente caratterizzata, i fattori che determinino la variabilità del fenotipo clinico restano in gran parte sconosciuti. Nella sindrome delezione 22 non esiste infatti una correlazione genotipo-fenotipo, cioè non è possibile prevedere dal tipo e dall’estensione del “pezzo” di cromosoma mancante quale saranno le problematiche che il feto o il bambino nato manifesterà nel corso della sua vita.
Capire le basi molecolari della patologia neuro cognitiva e psichiatrica potrà forse nel futuro indicarci non solo chi svilupperà tali sintomi ma anche svelarci possibili bersagli terapeutici per prevenirne la comparsa o limitarne la severità. È questa la sfida del futuro.
È una patologia molto complessa, come la definisce lei: dai mille volti
Le manifestazioni cliniche della sindrome da delezione 22 sono molto eterogenee sia per gravità sia per gli organi coinvolti. Per questo motivo, bambini, adolescenti e adulti affetti richiedono un approccio multidisciplinare e un metodo che garantisca al paziente una rete di professionisti specializzati, in grado di rispondere ai bisogni che cambiano nel corso delle diverse fasi della vita.
Nel nostro centro, in cui seguiamo più di cento giovani e adulti con delezione 22 provenienti dal centro e dal sud Italia, abbiamo coinvolto diverse figure professionali, per gestire al meglio le comorbidità dei pazienti e per orientare le famiglie a continuare le cure sul territorio. Nell’ambito della patologia dell’adulto, dove i quadri clinici sono in genere stabilizzati, viene principalmente seguito il follow up delle cardiopatie congenite operate, vengono gestite le complicanze endocrinologiche, soprattutto di tipo metabolico, e le manifestazioni neurologiche e psichiatriche. Molti pazienti presentano quadri di obesità, dislipidemia e ipertensione, che vengono rispettivamente gestiti nell’ambito della medicina nutrizionale e della cardiologia.

AIdel22 ha svolto nel tempo un lavoro capillare molto importante instaurando rapporti di collaborazione con specifiche figure mediche di riferimento in diverse regioni (Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Marche, Toscana, Lazio, Campania, Puglia, Sicilia), centri che possono garantire prassi consolidate e assicurare ai pazienti la diagnosi ed un’appropriata terapia. Da anni Aidel22 collabora con il Centro di Riferimento Regionale dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico Umberto I di Roma.
Il modello organizzativo multidisciplinare del Policlinico Umberto I coinvolge i diversi professionisti che in base al quadro clinico valutano il paziente.
È un modello replicabile?
Ritiene sia auspicabile poter coinvolgere altri colleghi e formarli così da acquisire competenze in merito alla sindrome e replicarne l’organigramma in altri centri?
È una malattia rara, ma che tuttavia rappresenta la più comune sindrome da microdelezione; questo può essere uno sprono nel costituire altre équipe specializzate?
Il centro di riferimento per la delezione 22 dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Policlinico Umberto I ha una doppia anima. Creato 15 anni fa dal Prof. Bruno Marino, cardiologo e ricercatore nel campo delle patologie strutturali cardiache e genetiche, il centro si è evoluto nel tempo grazie alla collaborazione di due anime complementari. Da un lato, quella pediatrica, rappresentata da cardiologi esperti in cardiopatie congenite, e dall’altro, quella dell’adulto, con l’immunologo specializzato in immunodeficienze e malattie rare grazie alla disponibilità della Professoressa Isabella Quinti, Immunologa Clinica ed esperta di errori congeniti dell’immunità nell’adulto. Questa integrazione multidisciplinare ha permesso di sviluppare un modello organizzativo efficace, basato sulla collaborazione tra diverse branche specialistiche, entrambe con una forte formazione nelle malattie rare e genetiche.
Nel nostro centro il case manager è l’immunologo clinico, che si avvale della rete delle malattie rare dell’azienda, composta da professionisti di alto livello in varie specializzazioni mediche o chirurgiche tra cui: Paolo Versacci e Carolina Putotto per la cardiologia, Matteo Spaziani per le patologie endocrinologiche, Carlo DI Bonaventura e Adolfo Mazzeo per la Neurologia, Antonio Pizzuti e Luigi Tarani per la genetica, Francesca Yoshie Russo per la patologia Otorinolaringoiatrica e Audiologica, Lorena Martini per l’ortopedia, Cristina Santoro per l’ematologia, e Valentina Pistolesi per la nefrologia. Inoltre, collaboriamo con Isabella Beradelli e Maria Rosaria Cifrodelli del servizio di Psichiatria del Policlinico S. Andrea.
Questo approccio integrato e multidisciplinare rappresenta un esempio immediatamente replicabile laddove sia sviluppata la rete assistenziale delle malattie rare. Tuttavia, l’esperienza puo’ essere ripetuta anche in altre strutture ospedaliere, purché siano presenti alcune figure chiave e una forte volontà di innovare la volontà di mettersi alla prova con le sfide che una sindrome complessa e multiforme come la delezione 22 impone. È infatti certamente auspicabile coinvolgere e formare altri colleghi per diffondere le competenze e replicare l’organigramma in altri centri, migliorando così diagnosi, cura e supporto ai pazienti in tutto il territorio.
Sarebbe auspicabile che il ruolo di coordinatore dei centri di riferimento per la delezione 22 venisse affidato a figure trasversali come il genetista medico, l’internista, l’immunologo clinico, o l’endocrinologo. Il case manager dovrebbe essere affiancato da un pool di specialisti che gestiscono le complicanze più frequenti. Nell’ambito della gestione del paziente il numero degli specialisti dovrebbe includere endocrinologi, cardiologi, nutrizionisti, neurologi e psichiatri.
Come accennato, è fondamentale che gli specialisti possano implementare la loro conoscenza della sindrome attraverso una formazione mirata; secondo il suo parere in quale ambito c’è maggior bisogno di agire? (cardiologia, patologie ORL, nefrologia, endocrinologia, immunologia, psichiatria, neurologia, ematologia, ortopedia, genetica, nutrizione)
Come abbiamo visto, il riconoscimento dei segni della sindrome 22 è più immediato nei bambini che presentano cardiopatie congenite o immunodeficienza. Per rendere la diagnosi precoce accessibile a tutti, indipendentemente dal fenotipo clinico, è fondamentale intervenire sulle figure che interagiscono con i bambini nei primi anni di vita, tra cui otorinolaringoiatri, chirurghi plastici, logopedisti, psicologi e operatori scolastici. È importante inoltre formare i pediatri di libera scelta, affinché non solo imparino a riconoscere i segnali della sindrome da delezione 22 e a mettere insieme tutti i pezzi del puzzle, ma più in generale, ad individuare i campanelli d’allarme che rendono necessario avviare il bambino e la famiglia ad una consulenza genetica, compresa la presenza di dismorfismi e l’associazione tra malformazioni di qualsiasi genere, specie se multiple, e anomalie del neurosviluppo.
Quali gli aspetti sui quali si concentra la ricerca clinica in Italia (sulla delezione del cromosoma 22)?
La ricerca italiana si occupa della delezione 22 sia a livello di ricerca di base, per identificare i meccanismi che impattano sulla comparsa delle manifestazioni, sia come ricerca clinica, principalmente incentrata sugli aspetti neuro cognitivi, cardiologici e immunologici.
Nell’ambito della ricerca di base, il lavoro del Prof. Antonio Baldini dell’Università di Salerno ha evidenziato l’impatto dell’aploinsufficienza (cioè, la perdita di una delle due copie) di TBX1, un gene chiave situato nella regione 22q11.2. Baldini ha dimostrato che TBX1 è fondamentale per il corretto sviluppo di molti tessuti, tra cui cuore, palato, e timo, e la sua perdita contribuisce alle caratteristiche cliniche della sindrome. Recentemente il suo gruppo di ricerca si sta occupando di capire il ruolo dell’aploinsufficienza di Tbx1 nella patogenesi della patologia neurocomportamentale nel topo, ipotizzando un suo ruolo nella comparsa di alterazioni metaboliche a livello cerebrale e identificando strategie per correggerle.
Il gruppo di ricerca dell’Università La Sapienza di Roma, a cui afferisce il nostro centro di riferimento, sta lavorando per comprendere meglio le caratteristiche cliniche e le strategie terapeutiche della patologia psichiatrica, neurologica e cardiologica dei pazienti con delezione 22. Da un punto di vista immunologico, il gruppo di cui faccio parte è al lavoro per implementare la conoscenza sulla risposta immunitaria alle infezioni e alle vaccinazioni negli adulti con sindrome e per vincere l’esitazione vaccinale in questa popolazione. Non in ultimo, stiamo lavorando per studiare gli elementi che influenzano il ritardo diagnostico e la qualità della vita degli adulti e delle loro famiglie, al fine di identificare aree di intervento e, possibilmente, spunti per migliorare l’assistenza delle persone che vivono con questa condizione.
Grazie alla ricerca, si possono individuare nuove strategie utili per le persone con delezione del cromosoma 22 e le loro famiglie per affrontare la vita quotidiana; è possibile sperare in nuove evidenze nel futuro prossimo?
La ricerca sulla delezione 22 è vivace non solo a livello italiano, ma anche a livello internazionale. Molto si sta facendo per identificare terapie riabilitative e per caratterizzare al meglio i disturbi inizialmente trascurati, come per esempio quelli a carico dell’udito, o alcune difficoltà specifiche in ambito neurologico come i disturbi del movimento o disturbi della memoria. Inoltre, grazie alla sempre maggiore accessibilità di tecniche genetiche avanzate, si sta studiando come fattori genetici aggiuntivi influenzino la variabilità dei fenotipi dei pazienti con delezione 22. Queste informazioni nei prossimi anni ci metteranno probabilmente nella condizione di predire quali pazienti svilupperanno alcune manifestazioni e cosa possiamo fare per migliorare per ridurre il danno e migliorarne la performance nel lungo periodo.
Inoltre, alcuni gruppi sono al lavoro per capire se è possibile correggere anomalie metaboliche cerebrali dei pazienti con delezione 22 agendo già nei primi giorni di vita, con l’obiettivo ambizioso di prevenire la comparsa di anomalie neuro cognitive e quindi cambiare radicalmente la storia naturale di questa condizione.
Immunologia e Sindrome da delezione 22q11.2:
Alterazioni immunologiche
Il sistema immunitario è variabilmente alterato nei pazienti, come diretta conseguenza del quadro di aplasia o d’ipoplasia timica; il timo, fisiologicamente localizzato agli apici polmonari, può essere assente, ipoplasico o situato in zone ectopiche; esso svolge comunemente il ruolo di organo linfoide primario, deputato allo sviluppo dei linfociti T., da ciò deriva la possibilità di presentare un deficit immunitario di entità variabile, da un normale profilo immunologico ad una completa assenza di linfociti, condizione rara, che necessita di trapianto di timo o di midollo osseo. Secondo la gravità del difetto immunologico i pazienti possono essere suddivisi in due gruppi: “DGS completi” (0,5-1,5% dei casi), che presentano una diminuzione importante del numero dei linfociti T e della loro funzione, e “DGS parziali”, che presentano, invece, un difetto immunologico lieve/ moderato, caratterizzato da un numero di cellule T leggermente diminuito e da una loro funzione normale o quasi normale. Nonostante anomalie delle cellule T (immunità cellulare) siano frequentemente riportate, nei pazienti affetti dalla sindrome, sono state descritte anche alterazioni dei linfociti B, cellule responsabili della produzione di anticorpi (immunità umorale). Alterazioni dei livelli delle Immunoglobuline e della risposta anticorpale specifica sembrano associarsi ad una maggiore suscettibilità alle infezioni ricorrenti e/o al rischio di sviluppare fenomeni autoimmuni.
Manifestazioni autoimmuni
Le alterazioni immunologiche della 22q11.2DS possono predisporre all’insorgenza di manifestazioni autoimmuni, questo si verifica nel 10-20 % dei casi circa. Le principali patologie autoimmunitarie presenti sono artriti, citopenie, endocrinopatie (tiroidite, diabete), epatite, vitiligine, che sembrano associati ad un’alterazione dei normali meccanismi di tolleranza immunologica, sia centrale che periferica. Recenti studi hanno evidenziato un’aumentata frequenza di citopenia autoimmune (porpora trombocitopenica idiopatica, anemia emolitica autoimmune). La patogenesi dei fenomeni autoimmunitari in pazienti con DGS non è del tutto chiara. La diminuzione delle cellule T, caratteristica di questi pazienti, potrebbe contribuire a un’anomala attivazione e differenziazione delle cellule B, una diminuita produzione d’immunoglobuline e/o una produzione di anticorpi aberranti che reagiscono contro cellule/organi dell’organismo.
Quali scoperte sarebbero considerate un nuovo “punto di svolta”?
Costituirebbe sicuramente una svolta esplorare il legame tra la disregolazione immunitaria e la patogenesi delle manifestazioni neuro cognitive e psichiatriche: credo che evidenziare il contributo dell’immunità aprirebbe nuove aree di studio per identificare possibili target terapeutici.
È noto il suo punto di vista in merito all’importanza e al valore che ha la stretta collaborazione con le associazioni di pazienti, il suo rapporto con AIdel22 ne è una testimonianza.
Dopo tante battaglie c’è una presa di coscienza sempre maggiore in merito al peso che hanno le expertise delle associazioni non solo nelle diverse fasi di ricerca ma anche nel contributo che possono dare per la stesura di PDTA o nel poter evidenziare i reali bisogni dei pazienti, ma ancora non possiamo dire che è sempre prassi, ritengo quindi, sia importante porre l’accento sull’argomento
Le chiedo un breve pensiero in merito sulla base della sua esperienza
Le associazioni di pazienti svolgono un ruolo fondamentale nel panorama della ricerca clinica e nell’elaborazione di politiche sanitarie efficaci e inclusive. Queste organizzazioni rappresentano la voce diretta di chi vive quotidianamente con una determinata condizione, offrendo un punto di vista prezioso, in gran parte inaccessibile agli operatori sanitari, e spesso sottovalutato dagli enti di ricerca e dalle istituzioni sanitarie. La loro presenza permette di individuare le reali esigenze dei pazienti, contribuendo a orientare le priorità di ricerca verso aree di maggiore impatto e rilevanza sociale. Inoltre, le associazioni di pazienti facilitano la raccolta di dati e testimonianze che arricchiscono gli studi clinici, rendendoli più rappresentativi e utili per sviluppare terapie più efficaci e personalizzate. Sul fronte delle politiche sanitarie, queste organizzazioni sono strumenti di advocacy, capaci di influenzare le decisioni politiche e di promuovere leggi e programmi di assistenza più equi e mirati.
La collaborazione tra ricercatori, istituzioni e associazioni di pazienti favorisce un sistema sanitario più trasparente, partecipato e orientato al benessere reale delle persone. In conclusione, le associazioni di pazienti come Aidel22 sono un pilastro imprescindibile per un progresso medico e sociale sostenibile e centrato sull’individuo. Noi ricercatori e clinici siamo a loro disposizione per fornire dati rigorosamente prodotti attraverso il metodo scientifico affinché possano chiedere ed ottenere il meglio delle evidenze disponibili, con il fine ultimo di migliorare la qualità della vita dei pazienti e delle loro famiglie.
Grazie Molte per il Prezioso Contributo e il Tempo Dedicato alla Comunità
Vanessa Cerrone